La capacità competitiva di un'impresa moderna risiede primariamente nella sua abilità di gestire e orchestrare la conoscenza. Un tema sempre più rilevante in uno scenario di mercato dove alla difficoltà di reperire competenze specializzate si sta sommando la diminuzione della popolazione in età lavorativa.
La gestione della conoscenza influisce direttamente sulla capacità innovativa di un’organizzazione. L’innovazione, infatti, non è unicamente legata all’adozione di strumenti digitali avanzati, ma anche (e soprattutto) a dinamiche cognitive che ne costituiscono il fondamento strutturale.
Il tema è stato al centro dell’intervento di Giovanni Schiuma, Direttore del dipartimento di Ingegneria all’Università LUM, al workshop “Conoscenza ed Estetica: la doppia chiave per sviluppare il potenziale innovativo delle organizzazioni”, organizzato dall’Industrial Innovation Lab lo scorso 18 novembre.
Spesso si commette l'errore strategico di sovrapporre il concetto di innovazione con quello di digitalizzazione, riducendo il progresso aziendale alla sola implementazione di nuovi software o macchinari.
Se è vero che la tecnologia rappresenta una condizione necessaria all’innovazione aziendale non è da sola sufficiente a restare competitivi in un contesto VUCA (Volatile, Incerto, Complesso e Ambiguo).
Per generare un reale vantaggio differenziante, le imprese devono evolvere verso il modello di "sistemi intelligenti", dove l'organizzazione viene intesa non come un meccanismo rigido, ma come un organismo vivente capace di apprendere e adattarsi.
La conoscenza, in questo quadro, non è un asset statico archiviato in un database, bensì un flusso dinamico che alimenta costantemente i processi decisionali. È la qualità di questi processi cognitivi interni a determinare se un'azienda sarà in grado di anticipare i cambiamenti del mercato o se si limiterà a subire passivamente.
Alla base del successo dei progetti di trasformazione digitale vi è una corretta integrazione della tecnologia all’interno dell’organizzazione, partendo dal contesto aziendale e dagli obiettivi che si vogliono raggiungere. Anche l’implementazione dell’AI nel contesto innovativo deve partire da questo presupposto.
L'intelligenza artificiale è infatti una tecnologia “general purpose”. Proprio per questa sua natura trasversale, la sua adozione non garantisce automaticamente un vantaggio competitivo.
Se non si parte da una comprensione chiara della base di conoscenza e dei processi di gestione del sapere che distinguono l'organizzazione, diventa complesso integrarla efficacemente nella "capacità intelligente" dell'impresa.
L'AI deve quindi innestarsi su fondamenta solide: solo così può agire come una potente tecnologia cognitiva, in grado di amplificare la razionalità organizzativa e gestire la complessità informativa con una velocità e una precisione inarrivabili per la mente umana.
Se non è saldamente ancorata ai processi distintivi questa tecnologia, pur potentissima, non può davvero incidere sulle vere leve di creazione del valore.
Per costruire una capacità di sviluppo realmente sostenibile, le organizzazioni devono affiancare alla razionalità dell'AI le cosiddette "tecnologie estetiche". Si tratta di strumenti che fanno leva sulle dimensioni tipicamente umane, come l'intelligenza emotiva e la capacità di immaginare.
Mentre l'algoritmo elabora il passato per prevedere il futuro probabile, le tecnologie estetiche utilizzano l'arte e la creatività per visualizzare futuri possibili.
L'adozione delle arti in azienda non ha quindi una funzione decorativa, ma diventa un vettore strategico per stimolare il pensiero laterale e l'innovazione. È attraverso queste leve che si recupera la centralità del fattore umano, l'unico in grado di fornire il senso e la direzione che la potenza di calcolo, da sola, non può generare.
Per tradurre questa visione in strategia operativa, le organizzazioni devono fare riferimento al Convergent Knowledge Innovation Model (Modello di Innovazione della Conoscenza Convergente, o CKIM).
Il CKIM è un framework teorico incentrato intorno l’idea che la vera capacità innovativa di un'organizzazione derivi non da una singola dimensione, ma dalla sinergia tra due componenti cognitive: la cognizione razionale e la cognizione emotiva.
La prima, oggi amplificata dall'AI, assicura la padronanza della conoscenza codificata, garantendo precisione, accuratezza ed efficienza nei processi decisionali. La seconda presidia i territori dell'immaginazione, dell'empatia e del sense-making, essenziali per individuare nuovi bisogni e direzioni.
Il modello CKIM dimostra che l'innovazione trasformativa non può scaturire dalla prevalenza della logica sulla creatività, ma dalla loro interazione dinamica: una vera e propria convergenza tra machine cognition e human cognition.
L'integrazione tra intelligenza artificiale ed estetica impone una revisione profonda del ruolo manageriale. La sfida non risiede più nell'efficientare i processi esistenti o nell'adozione acritica di nuovi strumenti digitali, ma nel saper armonizzare la cognizione razionale e la cognizione emotiva.
Chi guida un'organizzazione oggi deve trasformarsi in un "orchestratore" capace di valorizzare la diversità cognitiva, creando spazi dove la logica algoritmica sostiene, senza soffocare, la creatività e l'immaginazione delle persone.
In questo nuovo assetto, la leadership smette di essere uno strumento di controllo gerarchico per diventare una leva di abilitazione per i talenti. È questo cambiamento di approccio che rende le imprese non solo veloci nell'esecuzione, ma anche resilienti e capaci di generare valore a lungo termine attraverso la vera innovazione.
La traiettoria tracciata durante il workshop dal Professore Schiuma conduce verso un modello manageriale definito “Artful Management”, dove le organizzazioni evolvono da meccanismi produttivi a laboratori in cui la razionalità ingegneristica e la sensibilità artistica si fondono alla pari.
Un approccio che implica che l'azienda sia gestita con la disciplina del calcolo richiesta dall'AI, ma applicando la libertà visionaria tipica dell'arte. L'Artful Management eleva l'estetica a categoria economica: è la capacità di "sentire" il mercato e di immaginare soluzioni che i dati storici non possono suggerire.
Il messaggio emerso dal workshop è quindi chiaro: se l'intelligenza sintetica diventa una merce diffusa, la vera risorsa rara e decisiva per l'innovazione è la profondità umana.
Sbloccare la capacità innovativa significa, dunque, investire nella cultura e nelle arti con la stessa convinzione con cui si investe in hardware e software, perché è nell'intersezione tra queste sfere che si deciderà la competitività futura.